SE QUESTO È UN UOMO
SE QUESTO È UN UOMO
In molti hanno letto quel magnifico percorso di drammatica memoria autobiografica scritto da Primo Levi “Se questo è un uomo”.
In molti ricordano come nelle baracche del campo di concentramento agli internati veniva tolta la libertà, e come gradualmente veniva loro tolta la dignità umana. L’uomo era annientato, era solo un numero tatuato sul braccio.
Scoprendo l’orrore, e documentandolo, il mondo ha riconosciuto la “Bestia Umana” che nei campi di sterminio assaporava il gusto di una follia diffusa.
Ma, ma, ma … oggi sappiamo che vi è un altro grave pericolo che accompagna la disumanizzazione, l’annientamento delle coscienze, e questo male si chiama indifferenza.
Può succedere, perché succede, che ogni giorno la televisione, la stampa riportino notizie di brutalità consumate in conflitti diffusi. Forse per molti fa più notizia che un Paese attacchi un altro o che lo sconfitto si riaffacci sui campi di battaglia, che non l’annientamento, le torture, la violenza per la violenza che in quei luoghi si consuma.
Ancora una volta dobbiamo chiederci “Se questo è un uomo”.
Ma, ma, ma … oggi stiamo diventando, o lo siamo già, asettici nei confronti di quelle immagini che quotidianamente incontriamo soprattutto in quei luoghi del viaggio, le stazioni.
Uomini distesi su cartoni, di colore o bianchi. La notte in ripari aperti, soprattutto porticati, riscaldati da coperte distribuite a notte inoltrata da volontari. Di giorno questi “uomini” a rovistare nelle immondizie, o a richiedere elemosina, oppure anche a rubacchiare. Ma la corona delle stazioni soprattutto Termini è diventata un variopinto pullulare di uomini senza volto. Un esercito di uomini e donne senza identità.
I muri della stazione o dei palazzi delle vie adiacenti diventano persino il riparo anche per i propri bisogni, e in queste vie la gente s’affretta più del solito ad attraversarle perché, puzzolenti, sporche, dissestate e qualche volta pericolose.
Succede, però che una notte alcuni poliziotti allontanino questi “innominati” dalla tettoia della stazione. Si sentono alzarsi fra le ali dei gabbiani illuminati dalle luci della notte e l’indifferenza generale, urla bestiali. E lui, il senza nome, bestemmia, impreca e urla contro quegli uomini in divisa che mantengono un professionale contegno, sapendo che si sposterà un poco più in la per ritornare domani, o forse dopodomani.
E una sera come tante vedi una delle consuete scene di umana disumanizzazione. In piazza cinquecento, non fa ancora freddo, due esseri umani dormono rannicchiati, forse ubriachi, come animali da cortile, sulla rete dalla quale esce il calore del metrò. Per cuscino una bottiglietta di platica, la maglia e i calzoni irrigiditi dallo sporco come coperta. Le calze abbassate a scoprire metà piede, s’asciuga così il sudore. La gente passa, passa senza nemmeno guardare “se questo è un uomo”. Ne rubo l’immagine come se volessi che si imprimesse nella mia mente, rimuovendo quell’indifferenza che non si chiede più “se questo è un uomo”.
Di fronte a questa disumanità non ho ricette, non ho pronte soluzioni solubili da ingurgitare per guarire dalla apatia, so solo che da qui si eleva una domanda al mio essere uomo, che non può non chiedersi “Se questo è un uomo”.