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RIFORMIAMO LO STATO RIAVVIAMO IL PAESE

Tutti siamo consapevoli che il Coronavirus ci ha costretti a ripensare il nostro modello sociale ed economico produttivo, ma altrettanto tutti siamo consapevoli che la distanza che abbiamo constatato fra la crisi e le prospettive di riavvio è profonda e dovuta soprattutto a quei ritardi politici e strutturali di cui il nostro Paese soffre da molto, da troppo.

Il miracolo del ponte di San Giorgio a Genova (il tragico ponte Morandi), non è stato l’unico esempio di sincronismo pubblico privato. Ricordo che l’aeroporto di Montichiari fu realizzato in soli sei mesi e che l’allora Presidente del Consiglio, era il 1999, lo definì proprio un “miracolo”.

Miracoli che dovrebbero in una società moderna essere la normalità. Competenze pubbliche, professioni intellettuali, e imprese dovrebbero appartenere ad un modello di “economia partecipata” che in tempi certi sa rispondere alle emergenze e ai progetti di sviluppo programmati.

Guardando ai lavori parlamentari sembra invece di assistere, ancora una volta, al di là delle buone intenzioni e delle belle aspirazioni, ad un dibattito che verte su la competizione della corsa alle miniere d’oro. Ed il merito dello sviluppo rimane sottotraccia o immerso nel pesante terreno di una democrazia malata.

L’agricoltura, che ha detta di molti osservatori economici dovrebbe essere la locomotiva della ripartenza (se non altro l’agroalimentare ha garantito in questo tempo sofferto alimenti e servizi di qualità), viene considerata, invece, una buona carretta per trasportare la disperazione e le difficoltà da una sponda all’altra del mare in tempesta.

Il problema dei problemi sembra essere solo quello dei banchi singoli a scuola, forse dimenticandosi che già molte scuole italiane di tutti i livelli utilizzano banchi singoli e distanziati. Si assumono persone nella sanità (là dove funziona meno i dipendenti e le strutture sono di più  maaa!!!), nella scuola si assumono decine di migliaia di insegnanti (con il calo delle iscrizioni a tutti i livelli e indirizzi le stime dicono che dovremmo avere un elevato  surplus di personale maaa!!!), le Province, ferite ma non uccise, si muovono con dinamiche appesantite, salvo vedersi ripristinare le indennità ai Presidenti e agli assessori. Quotidianamente si annunciano miracolosi finanziamenti europei e nazionali (aumentiamo così il debito ai nostri figli), e non si capisce il perché continuiamo a dipingere la carrozzeria della nostra auto senza mettere mano al motore e al cambio delle ruote. E noi professionisti, professionisti dell’agricoltura e dell’agroalimentare veniamo lasciati in quel limbo che passivamente deve attendere scelte che fatico a considerare come lungimiranti.

Eppure il Coronavirus ha reso la lettura dei nostri mali più chiara e tutti possiamo leggerla senza difficoltà. Ma la democrazia è malata, tanto che assistendo al dibattito sul referendum per la diminuzione del numero di parlamentari ascolto motivazioni disarmanti. La democrazia ha la responsabilità d’essere il motore della convivenza sociale e dello sviluppo. Assistere a commissioni pletoriche, ricatti delle utili marginalità non è democrazia. È la malattia della democrazia. Pur nella garanzia dei pesi e contrappesi costituzionali il motore del funzionamento democratico deve essere riformato, ma purtroppo questo Parlamento, dobbiamo constatare che, come i precedenti (tutti), non è in grado di riformare sé stesso. Il Paese esige la riforma profonda dello stato, la riforma della sanità, la riforma dell’economia, la riforma della scuola, nei suoi aspetti profondi pedagogici, educativi e formativi. L’agraria ne è l’esempio più emblematico. Un Paese che confonde formazione professionale, istruzione professionale e istruzione tecnica; un Paese che non sa leggere il grande valore storico delle “istituzioni” scolastiche agrarie; un Paese che fatica a comprendere le ragioni e le modalità dell’innalzamento dell’asticella della professionalizzazione, non comprendendo bene la differenza fra Università e Istruzione Tecnica Superiore, è certamente un Paese che soffre di miopia congenita. Ma altrettanto, fra spinte e controspinte antistoriche, un Paese che non sa riconoscere il valore sussidiario delle professioni intellettuali (basti osservare la poca attenzione prestata ai molti emendamenti che Rete delle Professioni Tecniche ha presentato al DL sulla semplificazione), oppure l’assoluta mancanza di un  Tavolo permanente per l’agricoltura, così come avvenuto per le opere di Genova o di Brescia, per affrontare i problemi della nostra agricoltura e dell’agroalimentare, quest’anno colpiti tra l’altro da gravi e continue calamità naturali, annebbia il proprio futuro. Lo sportivo non vince nessuna gara, anche se motivato, se non è assistito da un ottimo preparatore, da un buon massaggiatore e da un allenatore motivante. Quelle figure trainanti per l’economia ci sono e sono proprio quei professionisti che la politica fatica a vedere, ovvero li vede come soggetti scontati, forse anche un poco invadenti; e per l’agricoltura soggetti addirittura marginali. Ma come altri Paesi che hanno un’agricoltura strutturata e organizzata, nessuna crescita, nessun sviluppo, nessuna ripresa è possibile se la visione politico programmatica non si cala in politiche “accompagnate dalle professioni intellettuali”. Senza macchinista e senza i tecnici altamente professionalizzati i treni di alta velocità rimarrebbero fermi.

Il Coronavirus è pertanto un’occasione per uscire dalle consuete difese a pandemie vinte anni fa e una sfida ad affrontare la complessa modernità di uno Stato capace di governo e di fiducia nel domani.

Noi Periti Agrari e Periti Agrari Laureati, professionisti dell’agricoltura, degli alimenti e dell’ambiente siamo disponibili ad apportare tutto il nostro straordinario contributo alla ripresa, sempreché la chiamata non arrivi in ritardo o senza convinzione.

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